Perdere tempo su internet by Kenneth Goldsmith

Perdere tempo su internet by Kenneth Goldsmith

autore:Kenneth Goldsmith [Goldsmith, Kenneth]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Einaudi
pubblicato: 0101-01-01T00:00:00+00:00


Vedere noi stessi e le nostre vite riflesse nelle nostre interfacce è una parte fondamentale della ragione per cui stiamo cosí attaccati a esse. Cornell pensava che fosse importante includere gli spettatori nelle sue scatole, ed è per questo che spesso vi inseriva degli specchi. Date un’occhiata alle scatole di Cornell e in una o due «finestre» troverete un’immagine di voi stessi. Il mito di Narciso, che scambiò il proprio riflesso nell’acqua per un’altra persona, è sotteso al successo dei social media. Lo psicologo Jacques Lacan aveva un nome per questa situazione: lo «stadio dello specchio», che significa che quando un bambino vede se stesso in uno specchio per la prima volta scatta un’identificazione immediata con quell’immagine. Fino a quel momento, il bambino non ha consapevolezza di sé in quanto essere individuale e unificato; al contrario, essendo totalmente dipendente dagli altri, ha un concetto di sé frammentato. Ma da quel momento, secondo Lacan, l’immagine di se stesso come una persona completa diviene intossicante: restiamo agganciati alle rappresentazioni esteriori di noi stessi, il che aiuta parecchio a spiegare perché ci piace ritrovarci taggati nelle foto di Facebook o quando i nostri tweet vengono ritwittati. Se internet è una gigantesca macchina copiatrice, ogni volta che ci vediamo riflessi in essa ne siamo piú attratti. Non sorprende il fatto che non riusciamo a smettere di googlare noi stessi, oppure che non riusciamo, malgrado tutti i nosti tentativi, a cancellarci da Facebook. C’è troppo di noi riflesso in Facebook perché possiamo allontanarcene.

I designer delle interfacce lo sanno benissimo. Tutte le volte che apro Twitter vedo un’immagine di me stesso (una in cui sono venuto bene: dopotutto, l’ho scelta io) nella barra di navigazione. Su Facebook il mio piccolo avatar spunta accanto alla casella dei commenti dopo ogni singolo post. Se scorro in basso il mio flusso di Facebook vedo me stesso, trasformato in un’icona, ripetuto all’infinito. Non c’è da meravigliarsi se provo un vivo interesse in ogni conversazione che ha luogo là dentro. Tutte le volte che apro un’applicazione di un social media, la prima cosa che mi fa vedere è quanto vi sono riflesso: quante volte vengo citato nei commenti, quanti «mi piace» hanno i miei post, quanti retweet e preferenze ho raccolto. Questa accumulazione è il capitale dei social media, una valuta simbolica il cui valore si misura in «Io».

McLuhan teorizzava che l’inserimento di se stessi nei media fosse una regola fondamentale per i media elettronici. Commentando il mito di Narciso, affermava che «questa estensione speculare di sé stesso attutí le sue percezioni sino a fare di lui il servomeccanismo della propria immagine estesa o ripetuta. La ninfa Eco cercò di conquistare il suo amore con frammenti dei suoi stessi discorsi, ma senza riuscirvi. Narciso era intorpidito. Si era conformato all’estensione di se stesso divenendo cosí un circuito chiuso. Il senso di questo mito è che gli esseri umani sono soggetti all’immediato fascino di ogni estensione di sé riprodotta in un materiale diverso da quello stesso di cui sono fatti»5. Se esiste una descrizione migliore dei meccanismi dei social media, io non la conosco.



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